Originally posted on 14 Dicembre 2016 @ 7:02
La Terza colonna di Piazza San Marco, sarebbe affondata con la nave che la trasportava in Bacino, nel 1172. Tra storia e leggenda, la Soprintendenza dà il suo via libera, per l’indagine tomografica. Sensori sui masegni di piazzetta San Marco, di fronte al Molo.
Parte sul serio la “caccia” alla terza colonna di piazzetta San Marco, quella che secondo le cronache andò perduta e sommersa in acqua nel 1172, mentre veniva portata a riva insieme alle “sorelle” del Todaro e del Leone alato, e rimase sul fondo del Molo.
La Soprintendenza veneziana è intenzionata a formalizzare infatti, il via libera all’indagine tomografica, nel tratto di riva compreso tra il ponte della Paglia e la Biblioteca Marciana proposta dal capitano e subacqueo veneziano Roberto Padoan proprio, per dimostrare che la colonna esiste davvero, sepolta sotto il fango a circa sette metri di profondità, a contatto con lo strato di caranto, l’argilla limosa e compatta che è nei fondali lagunari.
Affondò nel 1172 nel trasporto a riva. La colonna doveva essere grande come le altre due e una figura maestosa con in testa probabilmente un corno dogale
Leggenda? Storia? Staremo a Vedere nei prossimi mesi. Intanto non ci resta che immaginare come potrebbe cambiare il panorama se venisse ritrovata e reinstallata là, dove più di otto secoli fa venne ideata.
La Storia delle colonne.
In quella morbida sera di settembre del 1172 c’è sulla riva degli Schiavoni una curiosità mista a una intima consapevolezza. La vaga premonizione di un dolore sopravveniente.
Le navi della Repubblica Serenissima tornano dalla Seconda Crociata con molti feriti e poca gloria.
Molto sangue è stato versato. Il Saladino è padrone della Siria. È visir dell’Egitto. La conquista dei Luoghi Santi, al termine della prima crociata, e il governo “franco” di Goffredo da Buglione istituito a Gerusalemme, è soltanto un ricordo.
Nemmeno Templari e Giovanniti, i due ordini cavallereschi creati per assicurare il dominio cristiano in quelle terre d’Oriente, hanno potuto arginare l’orda dei turchi sanguinari. Anche se i crociati s’erano comportati anche peggio…
Assieme alle spezie preziose e ai tessuti destinati ai mercanti, a Costantinopoli il capitano ha imbarcato sulla nave tre imponenti colonne di granito orientale, rosa e grigio.
Su ciascuna ha fatto realizzare un simbolo di Venezia: san Teodoro, il primo santo protettore della città, una chimera (animale mitologico alla quale pensa poi di aggiungere due ali, per farla assomigliare al leone alato, simbolo di san Marco) e infine una figura maestosa con il corno ducale in testa.
In realtà, neanche il capitano sa bene se quella chimera sia stata scolpita in Oriente o addirittura in Cina. Ma quando l’ha vista al mercato di Costantinopoli se n’è innamorato: è talmente simile al leone alato, simbolo di San Marco, che da quindici metri sotto – pensa – nessuno noterà la differenza.
Anche in questo caso, nessuno da lontano noterà la differenza. Invece san Teodoro, san Tòdaro in dialetto, monaco orientale e guerriero, è proprio lui, scolpito nell’atto di uccidere un drago.
Il capitano sa bene che quelle tre colonne posizionate all’ingresso della piazza saranno identificate da tutti già all’orizzonte.
Saranno il simbolo di Venezia. Diverranno l’emblema del potere religioso che si salda con quello politico.
Tre, infatti, è il numero della trinità, simbolo divino. Ma c’è anche una figura umana.
Inoltre, la loro collocazione accanto al palazzo ducale, e la rappresentazione del doge assieme a quelle dei due santi che proteggono, formeranno un saldo legame tra Cielo e Terra che proteggerà i destini della Repubblica nei secoli.
Jacopo Orseolo Falier è soddisfatto di questa intuizione. La sua famiglia è già iscritta nell’Albo d’oro delle famiglie della Repubblica dal quale provengono tutti i dogi.
Nonostante la sconfitta militare alle Crociate, ritiene che quest’idea – un regalo alla città che diventi il simbolo, anzi il portafortuna eterno per Venezia – possa valergli una rivincita con il Doge e i Dieci, tale da consentirgli di salire alle maggiori magistrature: diventare procuratore, entrare nel Consiglio maggiore e poi un giorno, chissà, anche Doge della Repubblica.
Ma il capitano quella sera del 1172 non fece i conti con il destino, che evidentemente la pensa diversamente da lui.
Orseolo Falier sovrintende personalmente alle operazioni di trasbordo delle tre colonne. Ma qualcosa non funziona negli argani deputati al lavoro.
Forse non è stato calcolato correttamente il peso delle enormi colonne di granito. Forse qualche ingranaggio s’è arrugginito. Forse dall’Arsenale hanno inviato una “macchina” non all’altezza. Forse uno sbilanciamento imprevisto, causato da un onda che ha fatto ballare la nave… L’inchiesta che sarà aperta subito dopo. Non riuscirà mai a chiarire davvero la causa per cui la terza colonna, quella con la statua del doge, si stacca dai supporti e finisce in fondo al mare. Tra la disperazione del capitano che vede inabissarsi, assieme al granito, anche i suoi sogni di gloria.
Tra la rabbia e le lacrime, si presenta un altro problema.
Sbarcate le colonne, si tratta di erigerle sulla piazza. Vista l’esperienza negativa dello sbarco, si procede con grandissima cautela.
Il peso è enorme, il rischio altissimo. Nessuno vuole prendersi la responsabilità. Il doge in persona s’è presentato in piazzetta e ordina che i due simboli di Venezia debbano essere trattati con la massima cura.
Si presenta un ingegnere, Nicolò Baratter0, che suggerisce un sistema astuto: bagnare le corde che fungono da tiranti per poi lasciarle asciugare. In questo modo, asciugandosi, le corde si tendono: millimetro dopo millimetro, l’ingegnere riesce nell’operazione di erigere le colonne.
E sa bene come farsi ricompensare. In cambio di questo risultato, narra la tradizione che Barattiero abbia ottenuto dal doge la privatizzazione per il gioco d’azzardo da svolgersi solo nello spazio tra le due colonne, arricchendosi enormemente.
Quelle due colonne diventeranno, come aveva intuito il capitano Orseolo Falier, il simbolo di Venezia.
In epoca medievale e rinascimentale, in mezzo a loro nella piazza sorgevano delle botteghe in legno. Tuttavia già dalla metà del XVIII secolo lo spazio tra le due steli venne destinato a luogo delle esecuzioni capitali, tanto che tuttora tra la popolazione locale persiste l’uso superstizioso di non attraversare lo spiazzo tra le colonne.
Da questo uso deriva anche un modo di dire veneziano: “Te fasso vedar mi, che ora che xe” (ti faccio vedere io, che ora è). Derivato dal fatto che i condannati a morte, dando le spalle al bacino di San Marco, vedevano come ultima cosa la torre dell’orologio.
Pubblicato il: 14 dicembre 2016
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